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“Giustizia o vendetta?” di Enrico Esposito

di Enrico Esposito

L’intervista dell’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ad Huffington Post, è un pressante invito a riflettere sul tema della giustizia e su quello del carcere.

Non poteva scegliere momento migliore per auspicare un confronto a più voci tra filosofi, magistrati, sociologi, giornalisti, per evitare che tocchi soltanto agli addetti ai lavori interessarsi di un problema che riguarda tutti. La premessa necessaria più che mai è che la riforma del 1989 deve essere per lo meno riconsiderata alla luce dei vertiginosi cambiamenti registrati in questi trent’anni e più che ci separano da quell’importante revisione del codice penale.

Non era caduto ancora il muro di Berlino che in Italia si imboccava la strada tortuosa della riforma della giustizia. Era un passo importante, che però fin dall’inizio, come sempre capita in Italia, provocò un’infinità di convegni di studio, tavole rotonde esplicative via elencando. Forse da quegli animosi dibattiti bisognerebbe ripartire per un sereno e proficuo lavoro di analisi prima e di produzione legislativa subito dopo. Intanto trent’anni non sono passati invano. La società civile, che nonostante tutto esiste ancora, ha avuto tutto il tempo per conformarsi ai dettati costituzionali in materia. Nello stesso tempo però taluni concetti, già enucleati nel 1989, sono andati incontro a reazioni emotive e occasionali, tanto che sembra essere tornati indietro di vari decenni. Non c’è sentenza penale che non susciti proteste e scandalo, per la mitezza della pena o anche soltanto per l’applicazione delle leggi in vigore nella determinazione delle sanzioni.

“Fiat iustizia et pereat mundus!” esclamava il buon Persio nell’antica Roma. Un grido ingenuo certo, ma che interpretava uno stato d’animo e un sentire dell’opinione pubblica a larga diffusione nella società civile. Oggi si grida vergogna all’indirizzo dei giudici, che, è bene ricordarlo, adottano le sentenze con il concorso della giuria popolare, composta da comuni cittadini.

Si assiste così ad un “panpenalismo”, come dice Pignatore, che, in tempi attraversati da istanze populiste spesso gratuite, non promette niente di buono per l’avvenire. “Buttate la chiave” si urla contro i condannati per reati gravi. Ci sono tante ragioni per indignarsi, ma se si lascia prevalere l’istinto della vendetta sulla razionalità, non è azzardato parlare di ritorno a periodi oscuri che ci illudevamo di esserci lasciati alle spalle. E’ un falso problema parlare di giustizialismo e di garantismo. Sono anche queste reazioni inconsulte il più delle volte.

La bussola deve ancora essere la Costituzione, approvata con il contributo decisivo di tanti eccellenti magistrati del tempo. Se oltre a rifarsi alla Costituzione, il legislatore andasse a leggere i verbali dei dibattiti nell’Assemblea Costituente, troverebbe ragioni sufficienti a deliberare non sull’onda emotiva del momento e nemmeno sui reportages sensazionalistici di certa stampa, ma con cognizione di causa. L’art. 27 chiaramente dice che nessun imputato è colpevole “sino alla condanna definitiva”.

Inutile allora invocare giustizia sommaria, come nei periodi più bui della storia, se non si perviene alla sentenza definitiva. Nello stesso articolo si afferma chiaramente che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.” Altro che buttare la chiave! E su questo è intervenuto autorevolmente il Papa, che non a caso ha voluto Pignatone a capo della magistratura vaticana. Inutile prendersela con i magistrati se non si conformano all’opinione dominante: per l’art. 101 i giudici “sono soggetti soltanto alla legge”.

Ma proprio in questi giorni bisogna parlare di tali temi, di giustizia e di carceri? Perché no? I problemi decisivi per la comunità civile vanno affrontati proprio quando sembra che non sia il momento, per evitare di considerarli senza la serenità e la compostezza necessarie.